La messa in lingua latina

La messa in latino

di mons. Marco NAVONI - 

Dottore della Biblioteca Ambrosiana.

Per gentile concessione della rivista diocesana IL SEGNO. Estratto dal numero di settembre 2007.

 

 

Il Motu Proprio di papa Benedetto XVI (Summorum Pontificum) del 7 luglio scorso è stato preceduto e seguito sulla stampa e sui mezzi di comunicazione da un dibattito estesissimo e da una informazione capillare che hanno messo sì in evidenza l'interesse generale per questo documento pontificio, ma anche la superficialità e l'approssimazione di moltissimi commentatori.

Tale approssimazione e superficialità può essere sintetizzata in due frasi comparse spesso sui giornali di mezzo mondo e che a loro volta pretendevano di essere la sintesi dei contenuti del Motu Proprio: «Torna la messa in latino!» e «Torna la messa antica!». Frasi entrambe sbagliate e che non colgono il significato vero di tale documento.

É sbagliato dire innanzitutto che torna la messa in latino, semplicemente perché la messa in latino non è mai stata abolita. Tutti i libri liturgici usciti dalla riforma del Vaticano II sono editi in latino e, solo in seconda battuta, sono stati tradotti nella varie lingue nazionali. Ma, per la Chiesa cattolica, il latino resta la lingua ufficiale della liturgia: e sarebbe bastato seguire in televisione le messe solenni che il Papa celebra ad esempio alla mezzanotte di natale o a pasqua per accorgerci che il latino non è stato affatto soppresso. Anche per noi ambrosiani, a Milano, tutti i giorni in Duomo una messa è celebrata in lingua latina.

Che cosa dunque è tornato, con il Motu Proprio del Papa? Non la messa in latino (che non è mai stata abolita), ma la possibilità di celebrare la messa secondo il rito precedente la riforma del Vaticano II, usando dunque quel messale che la Chiesa aveva usato per quattrocento anni dal Concilio di Trento fino al Vaticano II. Il problema è che, mentre la “messa del Vaticano II” può essere celebrata, oltre che in latino, anche nelle varie lingue nazionali, la messa secondo il rito precedente può essere celebrata solo in latino. Di qui l'equivoco alimentato da certi commenti.

Ma altrettanto sbagliata è la seconda frase. Sembrerebbe infatti che la messa secondo il rito precedente sia più antica di quella che celebriamo normalmente oggi solo perché viene prima. In realtà il “messale del Vaticano II” per molti aspetti è più “antico” di quello tridentino: esso infatti recupera moltissimi testi di preghiere antichissime, addirittura del V-VI secolo, e che nei secoli si erano perduti e che non erano affatto presenti nel messale del Concilio di Trento. Sarebbe bastato studiare la storia della liturgia per evitare anche questo secondo equivoco.

Qual è allora il significato di questo Motu Proprio? Perché il papa ha voluto che ci fosse la possibilità di celebrare secondo il messale tridentino come forma straordinaria accanto alla normale celebrazione secondo il messale attuale? Potremmo dare questa interpretazione: il Motu Proprio è la traduzione pratica a livello liturgico dell'importante discorso tenuto dal papa il 22 dicembre 2002 sul Concilio Vaticano II come momento di continuità con la tradizione precedente e non invece, come vorrebbero alcuni pur da fronti opposti, come rottura inconciliabile all'insegna della discontinuità. In fondo il Papa ha ritenuto opportuno, nel momento attuale, anche a livello liturgico riproporre la logica cattolica dell’ “et-et” e non quella dell’ “aut-aut”. Non dunque: o il messale del Concilio di Trento, o il messale del Vaticano II (come se la dottrina contenuta nel primo escludesse quella contenuta nel secondo), ma sia l'uno che l'altro, come segni dell'unica tradizione vivente di preghiera e di dottrina.

La scelta del Papa di celebrare secondo il messale tridentino esprime la continuità del Vaticano II con la tradizione precedente e non invece come rottura.